Introduzione a “Rileggere l’economia"
- 10 DOMANDE - A che serve lo stato? L’ideologia economica liberista mette in discussione il ruolo dello stato e della legge: per prima cosa occor dunque chiedersi a che serve lo stato? a che servon le leggi? quali interessi devon favorire?
- A che serve l’economia? Jevons rileva brillantemente che l’economia è una scienza che concerne direttamente il benessere materiale della specie umana: di quale parte della specie umana va dunque esaminato il benessere materiale?
- Quali problemi restan aperti oggi nella filosofia? In Realismo critico rilevo tre problemi aperti oggi nella filosofia: a) sul piano teoretico il materialismo, come negazione della trascendenza – b) sul piano etico il nichilismo, apparente mancanza di valori e di punti di riferimento – c) sul piano economico il liberismo, che attecchisce sulla non-base dei primi due, esalta il denaro come unico valore che meriterebbe d’esser perseguito e provoca la redistribuzione patrimoniale più marcata possibile in favore di chi ha già di più, e quel che è peggio, fornendo alibi filosofici ed etici. Come affrontar e cercar di risolver questi argomenti, nel deserto intellettuale del nostro tempo?
- Di cos’è fatta la realtà economica? Einstein all’inizio delle conferenze sul significato della relatività, prima d’iniziar calcoli matematici complessi, rileva che oggetto di tutte le scienze è il tentativo di coordinar le nostre esperienze e organizzarle in un sistema logico: la novità di questo studio sta soprattutto in come organizzar la conoscenza della realtà economica.
- Quand’han avuto origine i profitti? Gli appassionati di storia economica alla fine trovan l’indice dei fatti storici principali cui fan riferimento gli autori esaminati, ma i profitti han origine con la rivoluzione industriale? con le scoperte geografiche? con le repubbliche marinare e città mercantili italiane? con le guerre puniche, la guerra di Troia, le vicende narrate dall’Antico Testamento? In quali parti si può ripartir la storia economica? Il problema s’intreccia col mistero dell’origine i profitti.
- Da dov’han origine i profitti? È necessaria una crescita economica continua? E chi ci guadagna? Teoria economica e manuali d’economia di quasi tutti gli autori da Smith a oggi propongon astrazioni in cui non vi son né profitti, né perdite. Tale modello irreale, confluito nella c.d. analisi microeconomica, vien giustificato col pretesto che permetterebbe di studiar le relazioni che si presentan nel mondo reale. Ma dà luogo a relazioni irreali: come quella che intercorrerebbe tra incremento di salari o imposte e disoccupazione, ma nella realtà almeno di regola i profitti esistono, e un incremento dei salari o d’un’imposta provoca sol una diminuzione dei profitti, o dei compensi dei dirigenti. L’analisi microeconomica studia un mondo immaginario che non si può presentar nella realtà, per ingannar chi non ha gli strumenti per replicare; Solow rileva brillantemente che nell’economia s’insinuan stupidaggini mascherate da conseguenze necessarie dei micro fondamenti; e per ora i manuali economici di base non l’han recepito. Ma allora da dove nascon i profitti? Come spesso accade, le cose più difficili da spiegare son quelle che abbiam davanti al naso, come l’esistenza della realtà: problema filosofico, per inciso, davanti al quale anche Popper s’arresta, e rispetto al quale propongo la soluzione del realismo critico. Allo stesso modo, il problema dell’origine dei profitti è uno dei segreti meglio custoditi della c.d. scienza economica, al punto che nel ‘900 gli economisti rinuncian a darne la spiegazione, salvo poi non aver gli strumenti per preveder e affrontar la crisi esplosa nel 2008.
- Da dov’ha origine il debito pubblico? Spesa pubblica o pareggio di bilancio? E chi ci guadagna? Oggi gli economisti dan lo spettacolo desolante di bisticciar come bambini tra cultori dogmatici del pareggio di bilancio, che accusan gli altri di non spiegar come uscir dal debito pubblico, e cultori dogmatici della spesa pubblica, che accusan gli altri di sostener interessi precisi, tutti han pretesa d’infallibilità, non spiegan come uscir dal dilemma tra investimenti pubblici che aggravan il passivo di bilancio dello stato e misure d’austerità che deprimon l’economia, trascuran che v’è chi intasca gl’interessi del debito pubblico, e quasi tutti ometton di rammentar che, anche una volta raggiunti faticosamente stabilità della moneta e pareggio di bilancio in un’economia nazionale, i trasferimenti internazionali di beni o denaro, cioè commercio internazionale e movimenti internazionali di capitali, e anche un acquisto di cento sterline è un trasferimento internazionale, mandan all’aria tutto di nuovo. Ma allora in che mani siamo? cittadini, parlamenti, governi, a chi devon dar ascolto?
- Da dov’han origine le crisi? Esiston dei cicli economici? E chi ci guadagna? Nel novembre 2008 Elisabetta II d’Inghilterra chiede agli economisti della London School of Economics – Lse com’è possibile che non abbian visto arrivar un disastro di proporzioni tanto vaste. In effetti, da 250 anni gl’economisti d’ogni setta non dan una risposta convincente sull’origine delle crisi, dunque non ne comprendon la dinamica: dan la colpa via via a ciclo bancario, sviluppo economico, tasso d’interesse, scostamento del tasso d’interesse sui prestiti bancari rispetto a un mitologico tasso d’equilibrio, crescita di domanda di beni di consumo rispetto a produzione di beni d’investimento, fluttuazione d’investimenti pubblici e privati; mancan solo le congiunzioni tra Giove e Saturno di don Ferrante nel XXVIII capitolo dei Promessi sposi di Manzoni, di fronte al virus dell’epoca. Intanto le c.d. crisi esistono, con conseguenze devastanti su condizioni di vita e lavoro di milioni d’individui: da un lato pignoramenti, chiusure e fallimenti d’attività produttive, dall’altro cali di redditi, licenziamenti e disoccupazione, da entrambi i lati povertà e miseria in strati più o meno vasti della popolazione d’uno o più paesi o regioni: nei periodi di crisi non restan a piedi sol i lavoratori licenziati, ma anche attività piccole e grandi che falliscon o chiudono, le crisi si rifletton sulle popolazioni in modo trasversale e indipendente dalla bipartizione marxista, ma errata, della società tra lavoratori e datori di lavoro. Ma quale credibilità si può ripor in una disciplina in cui vi son divergenze d’opinioni su tutto e non si sa da dov’han origine profitti e crisi, al punto che pochi anni prima del 2008 un Nobel profetizza che a tutti gli effetti pratici il problema centrale della prevenzione della depressione economica sarebbe risolto? come si fa perfino a considerarla una “scienza”, in queste condizioni? è solo un insieme di congetture rivestite da formulazioni matematiche, che non dan alcuna garanzia di corrispondenza alla realtà delle relazioni causali che assumon come basi, o un’arte divinatoria?
- Da dov’han origine le diseguaglianze patrimoniali? Son possibili minori diseguaglianze? Perché la povertà persiste e cresce, nei paesi industrializzati, nei paesi poveri, negli attuali produttori di materie prime e di petrolio? come perseguir minori diseguaglianze in concreto? Per risponder bisognerebbe prima saper da dov’han origine i profitti. Gli economisti che tengon la parte a chi ha di più guardan con un sorrisetto di finta commiserazione ogni proposta diretta ad affrontar il problema, asseriscon che son ideali belli, sì, ma impossibili da realizzar in concreto. Quelli che se n’occupan seriamente discuton se le diseguaglianze crescenti sian dovute a crescita del commercio internazionale, in particolare d’esportazioni di beni manufatti da paesi di nuova industrializzazione, crescita dei compensi dei manager, calo della tassazione su redditi e patrimoni maggiori, progresso tecnologico, rendimento del capitale quand’è maggior del tasso di crescita d’economia e popolazione, il fattore r > g di Piketty: chi vuol ipotizzar un fattore causale diverso, dica pure.
- Cosa posson far opinione pubblica, parlamenti, governi, organismi internazionali? A questo punto è facile e molto comodo arrestarsi piagnucolando, e sospirar con Ponzio Pilato, più o meno sinceramente o in malafede, che in un mondo globalizzato parlamenti, governi, organismi internazionali han le mani legate, son in balia delle forze impersonali dei mercati: come se teorie economiche e mercati non avessero nomi e cognomi, non fosser fatti di persone. Inoltre occor rifletter anche sui rapporti e strangolamenti economici internazionali e su quelli interni alla stessa Unione europea – Ue.
- IL PENSIERO ECONOMICO - Ciò posto, la storia del pensiero economico nei secoli è pressoché sconosciuta. Nella filosofia Hegel rileva acutamente che far storia della filosofia non è far storia dei filosofi, è far storia delle idee. Nell’economia questo lavoro non è ancor stato fatto: non v’era nulla di simile a questo studio. Come Ri-leggere l’economia oggi, dunque? Molto semplice, basta (ri)legger gli economisti, o meglio, il pensiero economico, da Platone a Piketty.
- Sul piano storico, da una storia e critica del pensiero economico risulta che le dinamiche d’origine dei profitti, entrate e uscite degli stati e origine delle crisi son comprese ben prima che Smith, con visione anglocentrica e limitata ad alcune delle conseguenze della prima rivoluzione industriale, scriva La ricchezza delle nazioni nell’Inghilterra del ‘700. Che del comportamento umano non solo in generale, ma anche nell’uso del denaro s’occupan già Platone e Aristotele nell’antichità e san Tommaso d’Aquino nel medioevo. Che su vari argomenti gli economisti italiani dal ‘500 al ‘700, forti dell’esperienza di secoli delle città mercantili italiane, son più avanti degl’economisti d’oggi, e pur provenendo da un paese di lunga tradizione mercantile, non perdon mai di vista il bene comune e non sostengon sol interessi di parte. Che da Smith in poi gli economisti, nelle lor opinioni, son in disaccordo su quasi tutti gli argomenti che costituiscon oggetto della c.d. scienza economica, anche se tendon a non manifestar troppo apertamente tale situazione imbarazzante, che sarebbe perfin comica, se non comportasse conseguenze in danno di miliardi di persone, di cui gli economisti son dunque responsabili, o complici. Che se anche da una cinquantina d’anni son assegnati ogni anno Nobel per l’economia, v’è da chiedersi se e quali progressi decisivi la conoscenza della realtà economica registri dopo la Teoria generale dell’inglese Keynes nel 1936 e le teorie degl’austriaci Mises e Hayek nel 1922 e 1960. Che neanche loro han il pregio dell’originalità, ripropongon teorie già presenti nel pensiero economico, senza neanche degnarsi di riferirne le origini. E soprattutto che la teoria economica è sempre in ritardo eclatante rispetto alla realtà dei rapporti economici, ad esempio la borsa è considerata lucrosa ma pericolosa già nel ‘600, ma gli economisti s’accorgon ch’esista solo nel 1929 e nel 2008, dei pericoli di politiche solo di spesa pubblica si accorgon solo dopo gli anni ’70 del ‘900, e dell’instabilità del sistema monetario del dopoguerra s’accorgon troppo tardi.
- Sul piano della struttura logica, e qui v’è la spiegazione di certi fenomeni imbarazzanti, ne risulta che quasi tutti gli economisti concordan sul fatto che incertezza e difficoltà di dar la prova della corrispondenza alla realtà delle teorie economiche dipendon dalla difficoltà d’isolar le variabili su cui una teoria si basa da altri fattori causali che posson interferir e di sottoporle a controlli sperimentali. Proprio qui però sta il problema della struttura logica del ragionamento economico: se le teorie economiche non posson esser sottoposte a controlli sperimentali severi, non son né dimostrabili né confutabili. E poiché secondo la Logica della scoperta scientifica di Popper ciò che non è assoggettabile a confutazione non ha carattere scientifico, ma metafisico, ne discende che le teorie economiche, o almeno molte d’esse, non han carattere scientifico, ma metafisico. Eppure da 250 anni a oggi decine d’economisti salgon in cattedra per dir che “adesso vi spiego io come funziona l’economia”. Dovrebbero aver la modestia intellettuale dello scienziato, che sa che le sue scoperte e ipotesi prima o poi posson esser sopravanzate da qualcun altro, invece come rileva Walras non abbandonan mai pretese d’infallibilità, dunque han spesso un’arroganza intellettuale senza limiti, e offron perfin lo spettacolo di darsi del ciarlatano e scribacchino accademico l’uno l’altro, quand’in molti casi non si tratta che d’un cieco che guida un altro cieco. Il guaio, ripeto, è che le teorie economiche provocan comunque conseguenze su miliardi di persone, e gli autori ne son dunque responsabili, o complici, ma proprio per questo non si posson far sconti neanche agli economisti migliori, quando vi si rilevan errori o vizi logici, e non penso solo a Marx o ai liberisti, ma anche a Nobel come Samuelson, Modigliani o Arrow.
- Sul piano filosofico, ne risulta che i fondamenti teoretici della crisi finanziaria esplosa negli Usa nel 2008 han radice nell’ideologia economica liberista teorizzata da Mises nel 1922 e Hayek nel 1960. Propongo di chiamar liberismo, non “neo-liberismo” o in altro modo, la “società libera”, cioè liberista, di Mises e Hayek. È pura falsificazione storica proporla come riproposizione o prosecuzione d’una non meglio identificata “economia classica”, d’una supposta “scuola austriaca”, cioè d’economisti dell’impero austro-ungarico, o del liberalismo politico di Locke, che è libertà dall’assolutismo monarchico e religioso, non libertà d’arricchirsi in danno d’altri. Il liberismo di Mises e Hayek è qualcosa di molto più profondo, e riprende idee sparse in alcuni estremisti isolati asserviti spudoratamente agl’interessi economici dominanti, come sempre purtroppo ve ne sono, e i giochi di prestigio con cui già nel ‘700 e ‘800 costoro ingannan, e ancor oggi s’inganna, chi non ha strumenti intellettuali e preparazione economica per replicare, nell’unica direzione di provocar la redistribuzione patrimoniale più marcata possibile verso l’alto, in favore di chi ha già di più e in danno di chi ha di meno, sia all’interno dei paesi avanzati, sia tra paesi avanzati e paesi poveri. Anche se gli economisti non ne vedon i fondamenti teoretici e s’accorgon solo dei suoi effetti, le diseguaglianze patrimoniali crescenti. In fase applicativa poi si nota una certa duttilità, a seconda di cosa convenga volta per volta a chi ha di più: spesa pubblica in campo militare, salvataggi di banche e integrazioni salariali senz’obblighi di restituzione, esenzioni dalla liberalizzazione del commercio internazionale per certi settori e i brevetti delle case farmaceutiche, e simili. Il problema è che chi fa il male odia la luce e non vien alla luce, perché non sian svelate le sue opere (Gv 3,20), i fondamenti teoretici del liberismo son presupposti ma non dichiarati espressamente all’opinione pubblica, e finché non li si mostran con chiarezza producon indisturbati le loro conseguenze.
- Sul piano della possibilità di minori diseguaglianze, che già in Rileggere la modernità e Realismo critico individuo come soluzione all’antitesi tra liberismo e marxismo sul piano filosofico, e che corrisponde, per inciso, anche alla linea proposta fin dall’inizio sul piano teologico dalla dottrina sociale della chiesa, da una storia e critica del pensiero economico risulta che la possibilità di minori diseguaglianze è realizzabile anche sul piano dell’analisi economica, e che né proprietà privata dei mezzi di produzione, né stabilità del potere d’acquisto della moneta, né pareggio di bilancio dello stato son d’ostacolo a una distribuzione più equa di redditi e patrimoni. Per perseguir minori diseguaglianze non serve né una società socialista, né provocar inflazione, né un passivo di bilancio dello stato: l’alternativa al liberismo economico non è né in Marx, né in Keynes, né in come entrambi son applicati nel ‘900. Quel che occor individuar e contrastare son i fattori di diseguaglianza e i capisaldi d’una società equa che il liberismo mira a distruggere: è così semplice, se se ne vedon le chiavi di lettura. È una posizione che può aver risvolti politici, significa non tornar a marxismo né keynesismo e non star né nella padella liberista, né nella brace di particolarismi egoistici ammantati da nazionalismo, razzismo, populismo e –ismi di turno.Ma il punto è che le alternative vi son già negli economisti del passato, o prendendo spunto da loro e traendone implicazioni ulteriori.
- Tutto ciò non esclude il ruolo importante degl’economisti, ma lo ricolloca al suo posto e ne valorizza il ruolo d’individuar le misure adatte per dar applicazione concreta ai principi teoretici generali, individuar i mezzi concreti per perseguir fini meritevoli, ridur in concreto a equità la composizione degl’interessi economici contrastanti nelle singole situazioni di tempo e di luogo e nel contempo mantener gl’incentivi necessari all’intraprendenza economica. Compito degl’economisti non è d’invader e monopolizzar ogni campo del sapere, dalla filosofia, al diritto alle altre scienze umane come in questi anni, e pur nella latitanza colpevole dei cultori di tali discipline negli aspetti connessi con l’uso del denaro, ma di cercar d’individuar e verificar poi in concreto gli effetti nelle singole situazioni di tempo e luogo degl’incentivi che posson condur a converger interessi individuali e collettivi, ossia del maggior numero possibile di persone, la maggior felicità del maggior numero, secondo un Bentham inteso rettamente.
- QUESTO STUDIO - Vediam dunque il contributo di ciascun autore alla conoscenza della realtà economica, senz’arrestarci un’analisi meramente esplicativa. Il titolo di questo studio vien da un’idea brillante di mio figlio Andrea, che poco dopo la pubblicazione dell’ultimo volume di Rileggere la modernità, su uno dei più bei lungomari della Liguria, cioè dell’Italia, cioè del mondo, mi ha suggerito di Ri-leggere l’economia, anche se quando mi ha fatto quella battuta di spirito non pensavo che sarei riuscito a portar a termine un lavoro del genere.
- Quanto alla struttura dei paragrafi, all’inizio di ciascun autore ne riassumo il messaggio di fondo che ne traggo, poi estraggo alcuni passi degli scritti e aggiungo una spiegazione breve e succinta: per una prima lettura rapida o un riassunto successivo consiglio di legger questa introduzione, le 10 possibili risposte nelle conclusioni, soprattutto dalla 6 alla 10, e le prime righe d’ogni paragrafo; inoltre gli autori si posson legger anche separati uno dall’altro. Quanto alla punteggiatura, Hegel rileva acutamente che il pensiero s’evolve con l’analisi di premesse e conseguenze degl’autori precedenti, poi però attribuisce a Cartesio il soggettivismo, che è quel che trae lui da Cartesio, mentre Cartesio mira a ben altro; per ovviar a questo inconveniente, dopo i testi che estraggo dagli autori indico tra parentesi il passo da cui son tratti, se li commento pongo il commento dopo i due punti, se non li commento o dopo il commento pongo un punto e virgola, e solo alla fine pongo il punto: fatto l’occhio su questa punteggiatura, dovrebb’esser facile distinguer cosa dicon gli autori e cosa ne traggo.
- Quanto al linguaggio, uso meno possibile termini tecnici, quelli che Friedman nel capitolo 10 di Capitalismo e libertà chiama ironicamente gergo dell’economista, che invece cerco sempre di tradur in un linguaggio comprensibile anche a chi non ha una formazione economica, come del resto dovrebber far sempre anche giuristi e filosofi: è facile, e anche per me nella professione d’avvocato o nella filosofia, usar un linguaggio tecnico per farsi capir solo dai c.d. addetti ai lavori e mantener le distanze dall’interlocutore, ma non è lo scopo di questo studio. Uso inoltre per quanto possibile il presente storico, l’aoristo del greco antico, che trovo permetta d’esprimer molti concetti in modo più diretto.
- Quanto alle formule matematiche, evito come la peste simboli algebrici e modelli matematici: è pur vero che non bisogna lasciarsi intimidir da grafici ed equazioni degl’economisti, che per spiegar certi concetti anche agli economisti occor usar dei grafici, e che a volte i modelli matematici posson esser utili a fissar meglio alcuni concetti, ma nella maggior parte dei casi grafici e modelli matematici sembran usati per la difficoltà, o incapacità, d’esprimer concetti complessi con un linguaggio discorsivo e comprensibile, o per render le ipotesi economiche impermeabili alla critica e alla confutazione, con l’aggravante che se ci s’abitua a usarli si rischia di non saperne far a meno. Eppure i pratici dell’economia da sempre si fan molto bene i conti senza bisogno di modelli matematici complessi, e non è che una teoria economica acquisti maggior o minor validità solo per il fatto di venir espressa in forma matematica, a meno di voler prender per realtà quelle che sul piano della loro struttura logica son solo delle ipotesi. Già Pareto nel 1906 rileva che è un errore molto grave creder che per il solo fatto d’usar la matematica l’economia nelle sue deduzioni abbia il rigore e la certezza delle deduzioni della meccanica celeste; Keynes nella Teoria generale (1936) dichiara che troppa parte dell’economia matematica recente è pura manipolazione, imprecisa quanto i presupposti iniziali sui quali riposa, che fa perder di vista la complessità e le interdipendenze del mondo reale in un dedalo di simboli pretenziosi e inutili (19.3); Mises in L’azione umana (1949) che le equazioni dell’economia matematica son ginnastica mentale inutile, trascuran la spiegazione teorica del processo di mercato e si trastullan in modo evasivo con nozioni prive di significato (16.3); Hayek nel 1936 che se guardiam le cose più da vicino queste dimostrazioni son sol la prova apparente di ciò che s’è già presupposto; il Nobel Leontief nel 1970 che al di là dello spiegamento di segni algebrici, in nessun altro campo di ricerca empirica s’usa un apparato statistico così massiccio e sofisticato con risultati così trascurabili; Chang, professore a Cambridge, che il 95% della c.d. scienza economica è semplice buonsenso reso complicato da espressioni tecniche e formule matematiche. Dunque occor verificar presupposti e ipotesi di senso comune, spesso fragili, su cui le elucubrazioni matematiche degl’economisti si fondano, che nella generalità dei casi son tutte da dimostrare: se infatti si costruisce un modello matematico sulla base d’un presupposto non può dar come risultato che la conferma di quel presupposto, ma questo non dà alcuna garanzia di corrispondenza alla realtà del presupposto assunto come ipotesi. Al punto che anche teorie per cui son stati conferiti dei Nobel già in più d’un caso son state demolite negli anni successivi. Inoltre i modelli matematici degl’economisti han il grave difetto d’esser impermeabili ai fattori causali non inseriti nel modello, col risultato che quando nella realtà intervien un fattore causale diverso, gli economisti non san spiegarsi l’esistenza della realtà, come quella della “crisi” esplosa nel 2008. Come rileva già Kant nel demolir la metafisica tradizionale, il punto è che v’è il rischio di prender per reale quel che sul piano logico è solo non contraddittorio.
- Quanto alla lingua, uso il meno possibile termini inglesi: non ho nulla contro l’inglese come strumento per comunicar in questo periodo storico con persone d’ogni parte del mondo, fin a poche centinaia d’anni fa s’usava il latino, anche se l’inglese ha una semplicità morfologica che lo rende inadatto a esprimer certe sfumature di pensiero e una divergenza insanabile tra lingua scritta e parlata e tra i vari paesi del mondo. Inoltre non v’è neanche un vocabolo per distinguer competizione e concorrenza: son chiamate entrambe competition, come se ogni rapporto di concorrenza dovesse essere di tipo competitivo e non potesse essere almeno in parte anche cooperativo, quando invece concorrenza vien dal latino cum-currere, correre insieme. Ma inglesismi che non han neanche corrispondenza nella lingua inglese, o dirigenti d’azienda che fingon di non saper più l’italiano e parlan con voce fintamente esitante d’attività d’“intrapresa” invece che d’impresa, di trovarsi “in Milano” invece che a Milano, o di chi “ha fallito” invece che di chi è stato dichiarato fallito, fan ridere. Si potrebbe suggerir loro anche d’antepor l’aggettivo al nome, come nella “romana pattuglia” d’Asterix a Londra, o di parlar con l’accento più british delle comiche di Stanlio e Ollio nella versione italiana, o meglio ancor con l’accento più american dei cartoni animati di Paperino in lingua originale. Inoltre quando la traduzione d’un titolo o un passo può esser resa meglio è non solo possibile, ma doveroso rettificarla: perfin i titoli di vari testi inglesi son tradotti in modo fuorviante rispetto ai loro contenuti.
- Quanto alla bibliografia, mi limito alle indicazioni indispensabili a individuar i circa 500 titoli che cito, come han sempre fatto gli autori più illustri fin a una cinquantina d’anni fa, senza la pedanteria scolastica che oggi vien chiamata lavoro scientifico, cioè senza riempir decine di pagine solo per esibir i titoli che cito nel testo, e soprattutto senza por note a pie’ di pagina, o peggio ancora in fondo al volume, secondo un metodo odioso che trovo per la prima volta in La società aperta e i suoi nemici di Popper,servon solo a rallentar lettura e comprensione del testo. Pongo invece alla fine un indice dei fatti storici principali da cui prendon spunto gli autori nel cercar di ricostruir fenomeni economici più generali.
- Questo studio a qualche economista può far andar di traverso più d’un caffè, ma stian pure tranquilli: in prima battuta non si rivolge a loro, come neanche a giuristi, filosofi, politici; né mi interessa un’inesistente patente d’economista, non serve l’iscrizione a un albo professionale per realizzar il tipo di critica che svolgo. Anzi, può esser l’occasione per introdur anche dei “profani” ad alcuni dei misteri meglio custoditi dell’economia. Lo stesso Chang rileva che l’economia è troppo importante per lasciarla agl’economisti di professione. E Jevons rileva brillantemente che l’economia concerne direttamente il benessere materiale della specie umana: dunque i primi destinatari di queste riflessioni son coloro i quali a questo benessere materiale non han ancor accesso, o che lo han perso, o che stan per perderlo. E soprattutto i più giovani.
- Idee, istituti giuridici, teorie economiche e ogni altra istituzione umana posson esser rettificati, prima o poi: quando se ne vedon errori e vizi logici. Quel che possiam far fin d’ora è contribuir a rilevar questi errori e vizi logici.